I Disastri simili

Itinerario 2. Il Disastro del Vajont

8 Luglio 2004 - "Andiamo a Cortina". Un anno sì ed uno no io e Donatella andiamo in Alta Badia a passare le ferie. Un anno sì ed uno no passiamo mezza giornata a Cortina ("…a vedere se ci siamo …"). Ormai associo Cortina con il mal di gambe provocato dall'acido lattico, scoria degli amati saliscendi per le Dolomiti, oppure alle non buone condizioni meteoriche che impediscono le escursioni in quota. A Cortina-città non c'è però molto da vedere. Un altro paio di maniche è la valle di Cortina: straordinaria conca protetta a imponenti bastioni rocciosi.
Guardiamo la cartina stradale. Dove andare? Sono solo le 11:00.
Il Vajont è lontano! Scomodo! Tutti gli anni ci proponiamo di andare però "… non sono venuto in montagna per scoppiarmi 80 km di curve e tornanti!""Va bene! Avviamoci e poi quando siamo stufi: dietrofront!"
Sono le 12:30 e siamo sul Piave. Ormai Longarone è ad una manciata di chilometri. Sento una strana sensazione crescere in me. In questi ultimi anni, da quanto nel 1998 mi sono laureato in geologia, ho letto tutto quello che sono riuscito a trovare sul Disastro del Vajont. Ho visto anche lo spettacolo di Paolini ed il film di Martinelli. "Longarone. Eccola." Rappresenta la vittima più illustre. In pochi istanti una persona su tre persone (per un totale di 1451) perirono. Una media terrificante; una specie di roulette russa inconsapevolmente giocata in pochissimi secondi. "Dov'è la Diga?" Basta volgere lo sguardo a sinistra, dall'altra parte del Piave, lassù.

Imbocchiamo la strada che porta a Casso, Erto ed al Passo di S.Osvaldo (ed alla Diga). La strada percorre inizialmente alcuni tornanti, dopo di che diviene tortuosa e stretta. L'ultimo tratto di ripida ascensione è scavato nella roccia e parte in galleria con delle aperture che consentono di scorgere l'imponenza della diga. Usciamo dal tratto in galleria e, passando sulla spalla destra della Diga, ci troviamo nella Valle del Vajont ed ai piedi del Monte Toc. Qui l'orografia della valle montana sembra essere stata messa sotto sopra con un immenso aratro. I versanti ripidi la delimitato come una comune altra valle alpina; l'incisione fluviale però è scomparsa come se un mastodontico camion di detrito avesse perduto per strada il suo carico di 270 milioni di metri cubi !!!!. Io e Donatella siamo geologi. In questo contesto il nostro spirito di osservazione non riesce a focalizzare i dettagli perché tutto è un dettaglio. E' come se un chirurgo, durante un'operazione, si accorgesse che il paziente sta vivendo con i polmoni al posto dei reni, il fegato al posto del cuore e la milza al posto del cervello. Propongo di trovare un posto per mangiare. Abbiamo bisogno di una "pausa emotiva".

Pranziamo ad Erto "Nuova" alcuni chilometri a monte dello sbarramento. Nell'osteria ci sono una decina di clienti. Ad un certo punto un uomo con barba e bandana nera entra e consuma al banco. "Strano personaggio", penso io. Poichè lavoro a Genova, e di tipi strani ne incontro molti ogni giorno, non ci faccio troppo caso. A dire il vero se tutti i tipi strani che incontro per strada fossero come lui non ci si potrebbe lamentare! Adesso, che racconto quel giorno di Luglio questo " uomo con barba e bandana" mi sembra di conoscerlo quanto un vecchio caro amico. Mentre mangio noto una foto in bianco e nero appesa alla parete. Raffigura una serie di persone tra cui l'uomo con barba e bandana. Forse è una persona di notorietà ad Erto....
Dopo la pausa, verso le 13:30, ritorniamo alla Diga. Questo viaggio sta turbando i nostri animi come mai ci era accaduto.
"Piacere. Mi presento: io sono la Diga di Colomber progettata dall'
Ing. Carlo Semenza. Sono alta 263.5 m (rispetto ai 47 m della Diga di Bric Zerbino), lunga 190.15 m (rispetto ai circa 150 della Diga di Bric Zerbino) ed avevo una capienza dell'invaso pari a 150 milioni di metri cubi (rispetto ai 18 milioni di Loc. Ortiglieto). Inizialmente non dovevo sorgere dove sono ora, bensì un paio di chilometri più a monte (Ponte Casso) e dovevo anche essere una sessantina di metri più bassa e con una capacità d'invaso di (soli) 50 milioni di metri cubi". Vista da monte, laddove un tempo c'era un lago, non viene fatta giustizia alla sua imponenza. In realtà il vero protagonista del panorama è sempre il Monte Toc.
"Sono alto circa 1860 mt. Ebbene sì! Quella sera ho dato uno scossone. Ma li avevo già avvertiti a sufficienza; tre anni prima avevo persino scomodato 700.000 mc della mia roccia (un buffetto) per metterli in guardia. E poi, che colpa ho io se mi hanno spinto giù? C'era chi già l'ho aveva capito, che fermo non amo stare. Tanto tempo fa, ma non ha memoria d'uomo, il fratello Torrente Vajont già aveva dovuto scostarsi nel suo corso per far spazio alle mie bramose falde. Così che colpa ho io se una notte non ho più resistito ? Uno schiaffo all'orgoglio di alcuni. Ma non è stato uno schiaffo come gli altri: è stato veloce circa 65 km/h (velocità massima del movimento franoso), lungo 35-40 secondi (tempo di colmamento lago) e di volume pari a 270 milioni di metri cubi. Un volume quasi totalmente costituito da roccia. Ma ciò nonostante non sono stato io ad uccidere. E' stata l'opera umana: il lago".

Nel piazzale antistante la Diga alcuni pannelli illustrano quanto accaduto. Il lago non esiste più. Colmato, cancellato, peggio ancora scappato!
Con la macchina raggiungiamo il paesino di Casso che sovrasta(va) l'invaso. La vista è tremendamente spettacolare. Un'intera "fetta di monte" è collassata sul (nel) lago. La vegetazione che ha timidamente colonizzato l'accumulo detritico, ma la superficie di distacco appare poco differente rispetto all'agghiacciante panorama che visse Casso la mattina del 10 Ottobre 1963.

"Una notte insonne a sperar di schivare massi furiosi e spruzzi vorticosi. Il Monte Toc l'ho sempre mirato dalla mia altezza, sempre lì, apparentemente fermo ed immobile. Per diversi anni bestie e uomini si affannarono su e giù per le sue pendici. Io, paesino di montagna, per secoli e secoli cullato dal fervore contadino ed ora abbandonato, amputato dal tempo ormai fermo a quell'istante, guardo atterrito lo sfregio, quasi un ghigno, nel volto del Monte Toc. E' forse questa, incisa nella roccia, la perenne firma dell'ingegno umano?"

La famosa M di Muller era già ben visibile anche prima della catastrofe; molte persone e studiosi erano però certe della sua stabilità. Molte di esse, furono successivamente convinte dai fatti che stabile il versante settentrionale del Monte Toc non lo era poi così tanto. Ciò nonostante non credevano (o non volevano credere) che un giorno sarebbe franato tutto in una botta unica. Ciò che lascia smarriti ed attoniti è pensare che un tempo sulla M del celebre ingegnere tedesco sorgevano campi, boschi, malghe, stalle ……

L'abitato di Casso fu risparmiato dall'ondata ma nonostante la sua posizione sopraelevata rispetto al lago di circa 200 metri, fu gravemente danneggiato da un bombardamento di detriti e massi. Uno di questi, narra Paolini, precipitò dentro la chiesetta e qui risiede. L'edificio è chiuso, quindi dobbiamo fidarci dell'oratore.Un sentiero conduce dai vicoletti del paese al cimitero. Un tempo esso era circondato da campi coltivati, pascoli e forse vigne. Ora non più. Non occorre giungere sul Vajont per constatare l'abbandono delle campagne. Nelle altre zone però questo fenomeno è stato molto meno traumatico. Passati dinanzi al cimitero il sentiero prosegue in discesa sino a raggiungere il ciglio di una rupe a picco sulla Diga di Colomber. Quest'ultima è posizionata qualche centinaio di metri più in basso. Il Monte Toc troneggia sempre dinanzi al nostro sguardo. Più a valle Longarone. Vista da qua le dimensioni della diga sminuiscono rispetto al contesto circostante. Per quanto imponente, l'opera umana è stata di gran lunga superata dalla conseguenza da essa stessa generata.

Adesso torniamo indietro. Casso è deserto. Solo un paio di persone e altrettante vetture posteggiate. La devastazione di Erto e Casso non fu totale come quella di Longarone. Il tributo di vittime fu inferiore (29 a Casso, 21 a San Martino, 24 alla Pineda, 69 al Col delle Spesse, 15 in località sparse a cui si sommano le 54 vittime tra il personale tecnico dell'invaso ma il dramma di questi due paesini si sarebbe protratto per i decenni successivi. Essi infatti furono totalmente sfollati (perché nel Vajont permaneva l'elevato rischio di nuovi franamenti) e quasi totalmente abbandonati a se stessi. Scendiamo a valle e ritorniamo ad Erto "Vecchia" oltrepassandola in direzione della Frazione di San Martino. Qui l'ondata che risalì il lago arrecò gravissimi danni e morte. Erto è posizionata più a monte della Diga ma, al contrario di Casso, topograficamente in posizione molto più depressa. "Ho sempre voltato le spalle a Casso ed alla sua arroganza di apparir più elevato. Vorrei adesso voltare le spalle anche alla devastazione che ci ha resi fratelli inseparabili nella disgrazia e nella coscienza umana. Sono stato abbandonato, poi ritrovato e ricostruito più in alto, quasi per invidia verso il mio fratellastro. L'ondata mi ha rubato case, frazioni e vite umane. Passato e futuro. Il Vajont, culla della mia storia, ora striscia verde quasi imbarazzato ai miei piedi ed ai piedi della Pineda."

Torniamo verso la Diga. Attraversiamo quello che un tempo era l'inforrato Torrente Vajont per fare alcune foto dal versante sinistro dello sbarramento. Successivamente apprenderò che è vietato addentrarsi nell'accumulo di frana (ormai divenuto un boschetto) poiché il sito "non è in sicurezza". Da lì abbiamo uno spettacolare panorama di Casso delimitato a valle dall'imponente parete di calcare ed a monte da una serie di ghiaioni testimonianza di una latente instabilità geologica (non direttamente collegata a quanto accaduto nel 1963). E' tempo di ritornare a valle. Prima però lasciamo nuovamente la macchina nel piazzale della Diga e percorriamo a piedi alcune centinaia di metri della strada per Longarone. Ciò consente delle panoramiche frontali della Diga. La strada è in galleria, stretta e percorsa da un discreto numero di macchine. Con noi altre persone. Alcune di queste evidentemente pensano di essere in un Luna park. Sono chiassose, irriverenti. Si ammutoliscono solo alla vista delle lapidi dei caduti della Diga. Tra il personale tecnico dell'impianto le vittime furono 54. Raggiungiamo la macchina e ritorniamo a Longarone. Il paese ovviamente è stato in gran parte ricostruito; fervono molteplici attività nel tentativo di voltare una pagina pesante come il Calcare del Vajont. Ancora una tappa per fare qualche foto alla Diga dal punto dove si è svolto uno dei più terrificanti olocausti idraulici della storia europea.

Scendo dalla macchina a passo pesante. Mi sembro il solito turista pirla "digitalfotodotato". Solitamente sono pignolo nelle inquadrature: faccio prove, riprove ed un numero elevato di scatti. Ma ora non ne ho voglia. Sono lì, come un ebete, dove una notte come tante, in quell'esatto punto, il soffio della morte e un'ondata di circa 25 milioni di metri cubi d'acqua strapparono vite, speranze, futuri senza neanche capire il perché ed il percome. Faccio due scatti e come un ladro di ciliegie scappo via verso le mie amate Dolomiti. A mente più fredda ho riflettuto e ricordato molte volte il Vajont. Adesso voglio ritornare per poter distogliere lo sguardo dalla Diga e, se possibile, al Monte Toc per ammirare questa vallata violentata dall'incompetenza e dall'ignoranza umana. Voglio raggiungere le forre del passo di Sant'Osvaldo, la Val Zemola, il Monte Duranno ed il Monte Borgà e magari conoscere di persona quel tipo con barba e bandana.

Il Vajont dovrebbe essere sempre ricordato per il Disastro del Vajont ma dovrebbe essere soprattutto conosciuto per la sua incredibile bellezza.

Perché il Monte Toc è franato sul (nel) lago del Vajont ?
La frana del Vajont fu il frutto della notevole complessità geologia, geomorfologica e idrogeologica della zona; in questo contesto si volle costruire un imponente invaso senza avere una precisa (forse neanche approssimativa !) conoscenza del sito. Il versante settentrionale del Monte Toc era caratterizzato dalla presenza di un'antichissima paleofrana.

Da una prima e superficiale osservazione questa grande frana non fu notata. Questo avvenne perché il suo corpo non era costituito da materiale sfatto e sciolto bensì da roccia che manteneva apparentemente una sua organizzazione strutturale tipica della "roccia in posto". La paleofrana infatti ebbe un cinematismo di scivolamento circa planare: una porzione di Monte Toc si movimentò lungo gli strati della roccia (come un libro che scivola lungo un piano inclinato). La frana del 9 ottobre 1963 si movimentò lungo lo stesso piano di rottura esistente. Tutta, in blocco! La presenza del lago e delle sue periodiche oscillazioni dovute agli invasi e svasi furono devastanti per l'equilibrio della massa. Infatti, a complicare ulteriormente la situazione vi era il particolare contesto idrogeologico che non fu mai compreso prima della catastrofe. I due geologi americani Hendron e Patton (1985-1986) portarono alla luce la presenza di differenti falde acquifere in pressione (o artesiane). La prima falda, posizionata superiormente alla superficie di rottura nell'antico corpo di frana, era regolata dal livello del lago: oscillazioni della quota d'invaso si traducevano immediatamente in oscillazioni del livello della falda.

La seconda, posizionata inferiormente alla superficie di rottura, era alimentata dalle precipitazioni meteoriche che si infiltravano nelle fratture del Monte Toc ed il suo livello era legato alla quantità di pioggia caduta il mese precedente (ed il mese precedente al disastro piovve molto). Questi due corpi idrici erano separati da un livello impermeabile di argilla e non comunicavano fra loro. La falda inferiore "spingeva verso l'alto" destabilizzando la massa sovrastante.Questo complesso sistema geologico - idrogeologico era in equilibrio precario ! La decisione di svuotare il lago ebbe un impatto terrificante su tale equilibrio giocato sul bilanciamento delle pressioni interstiziali. Ciò venne fatto (forse in preda ad una sorta di panico) perché si pensava che la stabilità della frana fosse unicamente legata al livello d'invaso ignorando completamente l'esistenza di una falda più profonda. Alle 22.39 la spinta destabilizzante non fu più controbilanciata ed avvenne il collasso finale: l'attrito tra le masse generò calore trasformando l'acqua in vapore facendo precipitare il già basso attrito tra le porzioni di roccia in movimento aumentandone ulteriormente la velocità di caduta. Più di 2000 persone morirono (1917 durante la catastrofe e molte atre nei giorni successivi). L'evento inflisse un colpo devastante anche allo sviluppo idroelettrico in Italia.

Ecco una pagina della rivista The Engineer del 1960 che parlava della realizzanda diga del Vajont:

Itineriario 3. Il Disastro di Malpasset

Note a margine :

Il Disastro del Vajont è semplicemente "Il Vajont". Ciò da la percezione di quanto sia radicata profondamente nella collettività italiana l'apocalisse del 9 ottobre 1963 (ore 22.39). Ciò nonostante, il nostro "belpaese" non ci mise molto ad accontonare il ricordo di questa catastrofe. Se non fosse stato per l'opera di Marco Paolino, il Vajont sarebbe recluso tra i muri delle università.

Nell'utlimo decennio sono uscite numerosissime pubblicazioni sulla tragedia. Ne vorrei consigliare due molto differenti fra loro:

  • "La Storia del Vaiont. Raccontata dal geologo che ha scoperto la frana" del Prof. Edoardo Semenza (Ed. Tecomproject, 2001) è uno dei massimi contributi divulgativi alla triste vicenda. A questo testo si aggiunge una straordinaria raccolta di immagini, disegni e schemi del Professore (sfortunatamente deceduto alcuni anni fa) inseriti dai suoi eredi nel cd "Le foto della frana del Vajont" L'operato nel Vajont (anzi Vaiont come lo chiamava) del Prof. E.Semenza dovrebbe essere preso come esempio. Bussola, martello e gambe avrebbero potuto salvare migliaia di vite umana non solo nel Vajont ma moltissime altre sciagure prima fra tutte quella di Molare.
  • "Vajont , l'onda lunga" di Lucia Vastano (Fonte alle grazie, 2008). Lucia Vastano prende le mosse dalla notte del 9 ottobre 1963 , dove lo spettacolo di Marco Paolini e il film di Renzo Martinelli si sono fermati, e in questo libro racconta cosa ne è stato delle tante persone che l'onda non uccise ma sconvolse per sempre, decimandone le famiglie, distruggendone le ragioni di vita, le tradizioni, i pochi beni; racconta della loro rabbia e del loro dolore, della loro speranza di giustizia continuamente delusa; racconta le indecenti trame che grandi potentati industriali come piccole cricche del malaffare hanno ordito alle loro spalle, gestendo i colossali finanziamenti per la ricostruzione; racconta le complicità della politica locale e nazionale; racconta le truffe ai danni della povera gente, indotta con le minacce o l'inganno a firmare tregue con l'ENEL in cambio di pochi spiccioli; racconta degli attentati continui alla sensibilità dei sopravvissuti e alla corretta memoria storica della tragedia.

Inoltre, di grande interesse sono stati anche i seguenti volumi:

  • "Fenomeni franosi e opere di stabilizzazione" di Maurizio Tanzini (Ed. Dario Flaccovio, Palermo 2002).
  • "History of the 1963 Vaiont slide: the importance of geological factor" di E.Semenza M.Ghirotti ( Geology and Environment vol. LIX°, 2000)

Povera Longaron .... di Marco Paolini e Gabriele Vacis da "Il Racconto del Vajont" (Ed. Garzanti, 1997)

La diga!
Quattro minuti...
"E cascà. la dig...".
Quattro minuti da quando l'acqua salta la diga a quando arriva a Longarone... Corre a 80 all'ora dentro quella gola, l'acqua. Irrompe come un treno in corsa, grande come cinquemila treni uno dentro l'altro!
Quattro minuti per decidere come muori o come vivi... "Via, a piedi, su per la montagna, corri, corri...". Via! Quelli che prendono la macchina, .quelli che ciapa il motorin... "Aspettami, vigliacco...". Quelli che prendono a piedi su per la montagna, che par che non ce la faranno mai, so no gli unici che si salvano. E trema tutto... "Aspetta, vigliacco!". E cominciano a volar i coppi. Cosa fai?.. Quelli che vanno a casa...
"Dove vai tu?".
"Vado a svegliarli...". Chi svegli?
Dove li metti?
In cantina ?
In soffitta ?
Sei matto?
E da chi vai?
Dalla morosa... Dai genitori?
Chi devi salvar per primo?
E i genitori: quanti figli? Due a testa... "Via cari, via cari...". Insieme... "E la gatta?". "Va ti". "No, ti aspetto...". "No, vai tu che sei giovane!". "No, ti aspetto, sbrigati!". "Vai! Cristo!". "Non ce la faccio... Non ce la faccio... Vai tu, vai tu... Corri fuori...".
E intanto s'intorbidisce l'aria... Comincia a tremar la terra, a volare travi, careghe, e spacca le antenne e spacca i rami... E tutto torbido, torbido, torbido... questo rumore... Vento che ti assorda e la terra che ti trema sotto i piedi... E lo capisci che sta arrivando acqua, perchè c'è l'odor dell'acqua...
"Da dove arriva che non capisco... Non capisco... più niente...".
Come esser sulle rotaie quando arriva un treno... Ti sposti dalle rotaie quando arriva un treno? Lo senti che sta arrivando il treno, e vicinissimo, ma qua non ti puoi togliere... Comunque sei sulle rotaie... E quello che sta arrivando e molto grande... Molto grande: io voglio vivere! Ci pensa l'aria. All'uscita della gola del Vajont, davanti all'acqua in corsa, ci pensa l'aria a toglierti ogni speranza. Compressa dall'acqua che corre dentro quel binario che adesso e la gola del Vajont raggiunge la forza, la pressione di due bombe atomiche di Hiroshima.
Indumenti
Via la pelle
Via le cavità interne
Animali
Vegetali
Minerali
Quali corpi vuoi trovare in una valle chiusa dopo una bomba atomica?
Vajont e anche questo: mille bare con qualcosa dentro e altre mille senza niente dentro... Mille e non più mille... Perchè non c'erano corpi per tutte le bare... Da metterle in terra, o anche chissà dove, a riposare...
Litigavano pur di aver qualcosa nella bara dei loro cari… Perchè noi abbiamo bisogno di metter qualcosa nella bara, abbiamo bisogno di attaccarci a un... Ci vuole, da immaginare, che qualcosa c'è, magari seppellito da qualche parte... E non... più niente...
E quel che non ha fatto l'aria micidiale, che ha vaporizzato tutto, come a Stava, dove li ha uccisi quasi tutti l'aria, quel che non ha fatto l'aria lo finisce l'acqua.
Si apre all'uscita del Vajont: un treno in corsa a 80 all'ora esce dalle pare ti della gola e perde le sponde. Non c'è più gola che lo costringe... Si apre, si distende... Un Niagara. II muro d'acqua passa da 70 metri di altezza a 30 solamente, ma con una forza cinetica assassina... Un martello!
II muro di rimbalzo, alto 30 metri, raccoglie i sassi del Piave, scava un lago nel letto del fiume che resterà per dieci anni, resistendo alle piene, prima di riempirsi un'altra volta. Tutte le pietre del Piave a mitragliar le case a Longarone... Su per la montagna, dall'altra parte, contro quelli che stanno scampando, che sentono arrivar l'acqua alle caviglie, alla cosce, alla pancia e poi l'acqua ti sorpassa...
"Adesso muoio...".

"La storia della diga Vajont, iniziata sette anni prima, si conclude in quattro minuti di apocalisse con l'olocausto di duemila vittime"

Mappa della sezione


Sito curato da Vittorio Bonaria vb.geolgmail.com oppure molaremolare.net