La Valle Orba

Approfondimento: Il Vescovo di Borgo Peruzzi di Gianni Priano

Andrea Camilleri, nel suo libro intitolato Le pecore e il pastore (Sellerio editore, Palermo 2007) pone al centro della narrazione la figura di un vescovo, mons. Giovanni Battista Peruzzo, "figlio di viddrani" e molarese, il quale si trovò ad esercitare il suo "mandato" ad Agrigento, dal 1932 al 1963. Non fu un vescovo qualunque e già Leonardo Sciascia (intellettuale e scrittore certamente più affine -in quanto a percezione del mondo- a Voltaire che non a Sant' Ignazio di Loyola) ne aveva messo in luce la spiccata e anticonformistica personalità nel suo Dalle parti degli infedeli pubblicato, sempre per l'editore Sellerio, nel 1979. Sciascia definiva Peruzzo un prete "diverso", "ieratico in chiesa e in processione" e capace di sciogliersi "in compagnoneria e spirito quando privatamente intratteneva o si intratteneva". La storia raccontata da Camilleri ci mostra Peruzzo ai ferri corti con i latifondisti siciliani in nome del diritto dei contadini ad una sopravvivenza dignitosa: certo, mons Peruzzo -duro anticomunista e reduce di una solida fiducia politica nella "rivoluzione fascista" - non credeva e non poteva credere alla redenzione marxista delle masse nè ad un umanesimo sociale a prescindere dalla novità del regno promesso da Gesù Cristo ma, da uomo pratico, spese le proprie robuste energie perchè, ad esempio, risorse idriche e luce elettrica potessero divenire patrimonio certo per tutti i lavoratori della terra. Impiantò, nella Sicilia dei privilegi incontestati, "cucine economiche" allo scopo di permettere ai poveri di mangiare un piatto di minestra al giorno gratis. Chi poverissimo non era doveva pagare, per quello stesso piatto, 20 centesimi. La media dei pasti distribuiti, nel 1932, fu di seicento al giorno.

Quando la Sicilia si trovò sotto i bombardamenti angloamericani Peruzzo non "sfollò" altrove ma rimase al suo posto e ordinò di mettere i locali del Seminario a disposizione della croce rossa svuotandoli dei seminaristi. Lo stesso Palazzo Vescovile, divenne, per sua volontà un ospedale con cinquantacinque posti letto. Aveva applaudito i fascisti quando si erano detti contro il latifondo e, allo stesso modo, fu - unico vescovo in Sicilia- a fianco delle forze riformiste nella battaglia per lo "spezzettamento " dei possedimenti feudali. A De Gasperi, nell' aprile del 1945, aveva scritto che i problemi sociali andavano affrontati "con larghezza di vedute". Nel luglio dello stesso anno, mentre si recava al Santuario di Santa Rosalia, venne ferito a morte da una palla di fucile che gli trapassò il polmone. La mafia e i grandi proprietari, assai probabilmente, non avevano gradito il "ficcanasare" di questo piemontese che, però, sopravvisse quasi "miracolosamente". E qui, a motivo del "miracolo", Camilleri sfiora (ed è un peccato che si limiti a sfiorarla) una vicenda inquietante e sempre trattata, dalle fonti ufficiali ecclesiastiche e non, come un dettaglio: all' insaputa del vescovo dieci giovanissime monache benedettine avevano barattato con il Signore le loro vite in cambio della salvezza del Monsignore. Dieci pecore per un Pastore. Non alle monache di cui Peruzzo niente sapeva ma alla propria madre "viddrana" -come dice Camilleri- ovvero villana, contadina che gli aveva fornito un cuore "resistente anche alle schioppettate" nonchè -evidentemente- alla protezione della Beata Vergine il vescovo attribuì il buon esito della vicenda. Il merito della sua salute andò, quindi, alla Madonna, sicuramente anche quella delle Rocche e a mamma Antonietta Ivaldi: "ra more der vasc-cuv", così la chiamavano i miei nonni, che l'avevano conosciuta bene (era morta nel 1936, a novantatre anni).

Una donnina che la vecchiaia aveva prosciugato e che abitava a Borgo Peruzzi nella casa un po' defilata di Loriana ma che , in precedenza, aveva vissuto ai Peruzzi-Peruzzi, cioè proprio dove "ir vasc-cuv" era "nascì". E dove io ho dormito per molte estati e divorato, sbocconcellando merende di pane e formaggio, giornaletti e libri negli spietati pomeriggi monferrini. Era una stanza povera, con il pavimento in cotto, i travi di legno e i muri sbilenchi. Vista fienile e cima del pero. Stanza scomparsa perchè ad un certo punto quell'antichissimo nucleo di abitazioni fu sventrato e radicalmente ristrutturato. Purtroppo, mi verrebbe da dire. Resta la memoria e qualcuno (qui tocca a me) che la raccoglie e la tramanda. Il "nosc- tr vasc-cuv", dunque, nacque lì nel 1878 da Antonietta, come abbiamo detto, e da Luca Peruzzo, del fu Giovanni. Padrino al battesimo il fratello di Luca, Michele, detto Chinèn, (mio trisavolo). Luca e Antonietta, quando si annunciò la nascita di questo unico figlio non erano più giovani (la madre aveva trentacinque anni e si era sposata a diciassette) e, decisero (ma perchè? per fede? per cosa?) di consacrarlo alla Madonna delle Rocche e farne un frate. "Viddrani",questi genitori, ma contrariamente a quanto scrive Camilleri, non poverissimi. I Peruzzo erano "particulari", ovvero piccoli proprietari che campavano del loro e non estranei, mi pare di avere capito, all' ambizione e al sogno di un ulteriore avanzamento di status sociale. Giovanni Battista, da vescovo agiografo della propria famiglia d'origine, ricorda il libretto sgualcito de Le glorie di Maria che -sono parole sue- "serviva a suscitare mirabilmente nei cuori l'amore e la fiducia nella Madonna". Libretto, insiste il Monsignore, "avidamente letto in famiglia".

Può darsi, anche se le storie raccontatemi dai vecchi - che ora non ci sono più- rimandano più alle atmosfere del verismo verghiano o del barbaro neorealismo lirico (ma non idillico) fenogliano sulla scia de La malora piuttosto che alle sante condivisioni emotive e spirituali evocate da Peruzzo. Il quale visse da rocchese tutta l' infanzia frequentando le prime classi delle elementari a Terio e, poi, a Molare . L'istruzione elementare venne completata proprio presso i Padri Passionisti delle Rocche che raccoglievano allievi sollecitando nuove vocazioni. Dal convento dei Passionisti il bambino Giovanni Battista scappò, ma a casa non dovettero accoglierlo con troppo entusiasmo (forse Antonietta si intenerì anche se non ci giurerei) visto che la sera stessa fu riaccompagnato in Convento. A nove anni e mezzo risulta iscritto alla prima ginnasiale in un Convento che, per un molarese, doveva trovarsi davvero dall'altra parte del mondo: Cameri, provincia di Novara. Nel 1892 lo troviamo a Pianezza (Torino) dove iniziò , come novizio, a vivere secondo la -allora rigorosissima- regola passionista. La consacrazione avvenne nel 1894: il futuro vescovo confermò la vocazione assumendo il nome di Giovanni Battista dell' Addolorata. Nel 1932 -come abbiamo già detto- sarà alto prelato ad Agrigento e, nel 2007, protagonista di un romanzo-verità dell' autore di Montalbano. Peruzzo e Montalbano: vicini, direi, nel coraggio e nell'indipendenza intellettuale. Entrambi uomini d'azione. Figli adottivi di un grande vecchio della cronaca ripensata attraverso la letteratura.

Note a Margine:

Gianni Priano di Borgo Peruzzi in passato aveva già dedicato la poesia "I son om" alla figura del Vescovo di Borgo Peruzzi:

I son om/c' van an zò e 'n lò/ c' san nainta andaua/ andè. C'l'è l'andè c'u i vò.
(Ci sono uomini/ che vanno di qua e di là/ che non sanno dove/ andare. Che è l'andare che li va.)

Gianni Priano ha pubblicato alcuni libri di poesia e vari interventi su riviste di arte e cultura tra cui "Maltese", "Il Babau", "Il Foglio Clandestino", "Resine", "Atelier", "Provincia Granda", "Tratti", "Nuovo Contrappunto", "Madrugada", "Il Gabellino", "La Clessidra", "Fotocopianda", "L'Area di Broca". Collabora con la rivista on-line www.ilportoritrovato.it (vedi la rubrica da lui curata "Lucciole, lanterne e capitale").

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